Le opinioni degli italiani sulle guerre in corso e sul riconoscimento dello Stato di Palestina
di Silvia Bramardo
A oltre un anno dagli attacchi terroristici di Hamas, l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) ha commissionato un sondaggio IPSOS per indagare l’orientamento degli italiani sul conflitto in Medio Oriente, il grado di inquietudine per la guerra e per individuare le percezioni su cause e responsabilità.
Un’ampia percentuale di italiani (77%) dichiara di provare preoccupazione per l’escalation delle violenze nel conflitto israelo-palestinese, dimostrando come il rischio di guerra sia particolarmente avvertito. Oltre un terzo degli intervistati, tuttavia, ha espresso incertezza riguardo alla propria opinione, mentre solo una minima percentuale (3%) non manifesta preoccupazione.
La responsabilità sulle emergenze umanitarie di Gaza e del Libano viene attribuita a Israele e al governo Netanyahu da oltre il 30% degli italiani; il 15% degli intervistati considera responsabile Hamas, mentre il 17% attribuisce a Hezbollah la responsabilità per le violenze in Libano. Si nota come le responsabilità dei conflitti gravino su attori specifici, quali il Presidente di Israele (quasi due su tre italiani individuano Israele quale principale responsabile) o le organizzazioni islamiche Hamas e Hezbollah (oltre il 70% delle risposte). Quattro italiani su dieci ritengono che Israele avrebbe dovuto perseguire una soluzione diplomatica con Hezbollah; opzioni più drastiche, come attacchi a distanza o un’invasione del sud del Libano, riscuotono un consenso decisamente minore.
Ad oggi, l’invasione è divenuta realtà, confermando le previsioni di molti a pochi giorni dalla pubblicazione del sondaggio. È netto il giudizio degli italiani su quanto successo a Gaza nell’ultimo anno. Un italiano su due (49%) ritiene la reazione di Israele eccessiva rispetto al suo diritto di difesa; solo il 21% la giudica una reazione comprensibile agli attacchi di Hamas del 7 ottobre.
Per quanto riguarda la gestione e la fase del post-conflitto a Gaza in futuro, circa un italiano su tre crede che sarebbe necessario l’intervento diretto delle Nazioni Unite. Un modesto 7% ha fiducia nelle operazioni di peacekeeping condotte dall’Unione Europea; il 18% preferirebbe che tale compito venga affidato ai Paesi della regione mediorientale.
Mentre sette italiani su dieci ritengono importante il ruolo dell’Italia nella mediazione del conflitto, solo una minoranza appoggerebbe uno schieramento esplicito con una delle parti: il 5% sostiene Israele, mente l’8% la causa palestinese, con un ulteriore 8% favorevole al sostegno dei palestinesi ma contrario a Hamas.
Sulla questione attuale del riconoscimento di uno stato palestinese, oltre la metà degli italiani (54%), ritiene che Roma debba in tal senso impegnarsi, ma solo un quarto del totale vorrebbe tale riconoscimento a conclusione del conflitto. Gli italiani apertamente contrari a uno Stato palestinese rappresentano solo il 7%. È rilevante notare che quattro su dieci preferiscono non esprimere un’opinione.
Riguardo la copertura mediatica, il 46% pensa che sia stata eccessivamente sbilanciata a favore di Israele; per il 39% l’informazione è neutrale e oggettiva. Solamente un 16% ritiene che lo sbilanciamento sia a favore di Hamas.
Nelle mozioni per il riconoscimento dello Stato di Palestina, la Camera invita l’Italia a difendere i diritti umani e il diritto internazionale e a lavorare per un cessate il fuoco che garantisca dignità e sicurezza sia per il popolo israeliano che per quello palestinese, rispondendo all’aspirazione del popolo palestinese di vivere in uno Stato proprio indipendente. La Camera sollecita inoltre il Governo a condannare gli atti antisemiti, intensificatisi in Italia e nel mondo dopo il 7 ottobre 2023, incoraggia Israele a intraprendere le trattative di pace, l’immediata liberazione degli ostaggi, a garantire l’accesso alle cure e ai beni essenziali per bambini e donne.
Le immagini di Gaza parlano chiaro: l’uso di armi pesanti con grande capacità distruttiva in aree densamente popolate costituisce un attacco diretto e intenzionale ai civili; la distruzione delle strutture sanitarie con bombardamenti diretti su ospedali e tende implicano perpetue violazioni del diritto internazionale. I nostri governanti devono scegliere se sostenere il multilateralismo, l’ONU e il diritto internazionale oppure favorire azioni unilaterali in violazione delle norme internazionali sancite dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
L’Italia deferita dalla Corte di giustizia UE per abuso di contratti a termine nel settore scolastico
di Beatrice Bonardi e Elisa Bilancia
Il Bel Paese, ancora una volta, viene deferito dall’Unione Europea. Cosa si intende con il termine deferito e cosa comporta?
L’Unione Europea, con l’obiettivo di garantire che tutti i Paesi membri rispettino la normativa europea, prevede la possibilità di ricorrere al processo di defezione. Ovvero, il processo attraverso cui un Paese membro viene portato davanti alla Corte di Giustizia Europea per l’inosservanza delle leggi e se la Corte si pronunciasse in modo favorevole, lo Stato dovrebbe pagare sanzioni milionarie giornaliere.
L’UE ha di recente avviato il processo nei confronti dell’Italia per la violazione della normativa europea sul lavoro a tempo determinato, evidenziando:
- l’uso improprio dei contratti a tempo determinato per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario nelle scuole pubbliche;
le condizioni di lavoro per gli insegnanti con contratto a tempo determinato sono caratterizzate da elementi discriminatori: la legislazione italiana, infatti, non consente una progressione salariale che includa l’esperienza maturata nei periodi di servizio precedenti per i docenti con questo tipo di contratto.
La direttiva di riferimento è la 70/99, risalente a 25 anni fa, che stabilisce due principi fondamentali: dopo 36 mesi di servizio, il lavoratore deve essere stabilizzato, e ogni Stato membro è obbligato a implementare misure efficaci per prevenire l’abuso dei contratti a termine. La prima procedura di infrazione nei confronti dell’Italia è stata avviata nel 2010, archiviata nel 2014, successivamente ne è stata avviata una seconda, che è quella che ha portato al deferimento. L’Italia ha tentato di adeguarsi alla normativa? Lo Stato italiano non ha mai garantito la disponibilità di tutti i posti vacanti in organico di diritto per le assunzioni a tempo indeterminato. Questa mancata disponibilità comporta, ancora oggi, un abuso dei contratti a termine, infrangendo il principio di non discriminazione.
Il deferimento dell’Italia alla Corte di Giustizia Europea non è un fatto recente, difatti l’Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori (ANIEF) conduce questa battaglia da oltre dieci anni. Il Presidente ANIEF Marcello Pacifico, in una recente intervista, alla domanda “Cosa succede adesso?” risponde “Aderire alla nostra class action volta ad agire su più temi e fronti: ferie, ricostruzione di carriera, salario accessorio, scatti di anzianità, risarcimenti e carta docente, è il primo passo da compiere”.
L’eccessivo ricorso a decretazione d’urgenza e delega legislativa dei governi italiani
di Massimiliano Artioli
Una delle tendenze ormai da tempo consolidate, nell’ambito della produzione legislativa in Italia, riguarda la diffusione di norme aventi rango di legge elaborate ed emanate dal Governo (sia nella forma della decretazione d’urgenza, sia nella forma della delega legislativa accordata dal Parlamento al Governo).
Secondo la teoria della separazione dei poteri, il Governo dovrebbe esercitare solo poteri esecutivi (ossia agire concretamente per realizzare, nei limiti di quanto concesso dalla legge, i programmi in base al quale è stato nominato) lasciando la funzione legislativa alle assemblee rappresentative della volontà popolare (chiamate ad emanare provvedimenti generale e astratti con la funzione di regolare una determinata materia, prescrivendo comportamenti obbligatori ma, allo stesso tempo, delineando i limiti entro i quali il potere esecutivo può essere esercitato).
La nostra Costituzione, tuttavia, permette al Governo (art. 77) di emanare decreti aventi forza di legge (decreti legge) in caso di necessità ed urgenza che rimangono in vigore 60 giorni a meno che il Parlamento non li converta in leggi. Sempre la nostra Costituzione permette al Parlamento (art 76) di delegare la funzione legislativa al Governo (che la esercita, sulla base di leggi delega approvate dal Parlamento, attraverso l’emanazione di decreti legislativi).
Di conseguenza, in Italia, il potere legislativo, in teoria riservato al Parlamento, può essere esercitato anche dal Governo al quale dovrebbe essere riservato solo l’esercizio del potere esecutivo. Di tale facoltà la politica, e il Governo, in Italia hanno fatto un suo sempre più massiccio.
A titolo di esempio, durante la XVIII Legislatura (2018-2022) sono state approvate 315 leggi (di cui 104 di conversione di decreti legge) e sono stati emanati 146 decreti legge, 164 decreti legislativi e 17 regolamenti di delegificazione (dati ufficiali rinvenibili nella sezione “Documentazione parlamentare” sul sito istituzionale della Camera dei Deputati). Nella precedente XVII Legislatura (2013-2018) erano state approvate 349 leggi (di cui 83 di conversione di decreti legge) ed erano stati emanati 100 decreti legge, ben 257 decreti legislativi e 35 regolamenti di delegificazione.
Tralasciando i pur importanti risvolti che tale pratica può avere in termini di divisione dei poteri (nello specifico tra potere legislativo e potere esecutivo), l’obiettivo di questo articolo è quello di segnalare i possibili problemi, in termini di fruibilità e applicabilità della legislazione, che tale pratica può comportare.
In generale la tendenza che vede l’incremento della produzione legislativa da parte del Governo va inserita in quel fenomeno di crisi della legge, così come la concepiamo (ossia un provvedimento imperativo, impersonale, generale ed astratto) che è in atto da decenni. A causa al forte incremento della richiesta di regolamentazione proveniente da un contesto sociale sempre più variegato e sempre più soggetto a rapidissimi cambiamenti, si è fatta strada la convinzione che le assemblee legislative non rispondessero a tali esigenze con la velocità richiesta e la competenza necessaria. Si è così assistito ad un forte incremento della produzione legislativa di origine governativa, ritenuta invece capace di regolare le diverse istanze con la velocità e la profondità auspicabili.
Tuttavia i provvedimenti legislativi elaborati dagli apparati ministeriali rischiano di essere concepiti in un’ottica eccessivamente tecnicistica. Gli apparati ministeriali, infatti, tendono ad approcciarsi alla produzione normativa con l’ambizione di regolare nei minimi particolari la materia oggetto del provvedimento nella convinzione di poter limitare l’incertezza interpretativa che consegue all’emanazione di un provvedimento legislativo. Incertezza interpretativa che rappresenta un freno all’azione degli uffici pubblici chiamati ad applicare il provvedimento.
In più la produzione legislativa elaborata da apparati del Governo tende ad essere elaborata con un’ottica di conservazione della prassi amministrativa in atto, prescinde dalle possibili ricadute in termini di aggravio dei costi burocratici che i soggetti chiamati a rispettare le norme dovranno sostenere e tende ad essere poco incline ad abbandonare un rigoroso registro tecnico-giuridico.
Il risultato finale consiste, spesso, in un provvedimento legislativo solitamente corposo e complesso, che sottolinea, invece di semplificarli, i problemi interpretativi e, di conseguenza, i problemi connessi alla sua concreta applicazione, acuendo la distanza con i destinatari di tali provvedimenti (che devono possedere competenze tecnico-giuridiche elevate per comprenderne le norme) e aumentando il carico burocratico a loro carico.
Paradigmatico di tale tendenza è la riforma del Terzo Settore (D.Lgs. 117/2017). Il Codice del Terzo Settore, emanato nel luglio del 2017 aveva l’ambizione di semplificare un ambito che, nel corso degli anni, aveva visto lo stratificarsi di una serie di interventi legislativi. Questa ambizione, si può serenamente affermare, è stata in gran parte frustrata. Le precedenti categorie di enti non profit costituiti in forma di associazione non sono state ricondotte ad unita ma, anzi, permangono come sottocategorie (ognuna con le sue caratteristiche peculiari) all’interno di una nuova macro categoria rappresentata dagli Enti del Terzo Settore. Lo sforzo sistematico dei 104 articoli che compongono il Codice del Terzo Settore è visibile e apprezzabile, ma l’approccio legislativo utilizzato ne ha reso assai complessa l’applicazione.
La definizione di Ente del Terzo Settore è contenuta in un articolo strutturato su 3 commi con ben 541 parole. La definizione generale è contenuta in un unico periodo di 117 parole. Espressioni che, per quanto specifiche e dettagliate, rimangono comunque oggetti di interpretazione. L’oggetto con il quale gli Enti del Terzo Settore dovrebbero perseguire le proprie finalità (art. 5) e disciplinato in 2 commi. In particolare, l’elenco delle attività che devono essere esercitate in via prevalente, se non esclusiva, dagli Enti del Terzo Settore per perseguire le proprie finalità, consta di 26 attività cosiddetta di “interesse generale”, per un totale di 754 parole con 18 rimandi ad altri provvedimenti normativi.
La disciplina dell’attività di volontariato, è contenuta nell’art. 17, strutturato in 8 commi per un totale di 474 parole con il rimando ad altri 4 provvedimenti normativi (la precedente disciplina, a titolo di esempio, era contenuta nell’art. 2 della L. n. 266/1991 che era strutturato in 3 commi per un totale di 108 parole con nessun altro riferimento ad altro provvedimento normativo).
Peraltro, a 7 anni dalla sua emanazione, alcune parti del Codice del Terzo Settore, anche di grande importanza pratica per i soggetti chiamati a rispettarne le norme, non sono ancora applicabili.
Le cose non migliorano quando si passa alla prassi applicativa concreta. Il Ministero delle Politiche Sociali, competente in materia, ha dovuto emanare 9 decreti applicativi e 57 tra note ministeriali e circolari interpretative nel tentativo di assicurare una uniforme applicazione della riforma su tutto il territorio nazionale.
L’ambizione a raggiungere una certezza granitica nell’applicazione di un provvedimento legislativo attraverso la normazione particolareggiata di tutti gli aspetti di una materia è, d’altra parte, una chimera sempre inseguita e mai raggiunta. Nel momento in cui, infatti, per applicare un provvedimento legislativo è necessario assegnare un significato alle parole con le quali quel provvedimento è scritto in relazione al contesto nel quale quel provvedimento è chiamato ad essere applicato, è palese che un’interpretazione certa, uniforme e stabile può essere perseguita ma non è mai ottenibile in pieno. Il diritto può offrire solo certezze relative, mai assolute.
Stante quanto sopra esposto, sarebbe auspicabile l’adozione di misure che limitino la decretazione d’urgenza e la delega legislativa, al di là di considerazioni politiche e costituzionali, perché l’approccio con il quale gli apparati ministeriali si accostano alla stesura di un provvedimento tende a renderli più complessi e, di conseguenza, più difficili e gravosi da applicare.
L’applicazione di un provvedimento normativo, in generale, e di un provvedimento legislativo in particolare, non può prescindere dall’attività interpretativa delle espressioni linguistiche contenute nel provvedimento stesso. Più il provvedimento legislativo è corposo, approfondendo oltremodo principi e precetti oggetto di regolamentazione, più l’attività interpretativa (intesa come l’attività di assegnazione di significati alle parole utilizzate nel provvedimento) diventa complessa e frammentata, aggravando i problemi derivanti dal carico burocratico che i soggetti interessati dall’applicazione della norma sono chiamati a sostenere.
“Connessioni” e la nuova Carta della Partecipazione 2024, di Liliana Cori
E’ il titolo della conferenza1 che ha presentato a settembre la nuova Carta della Partecipazione 2024,2 dopo 10 anni di pratiche ed esperienze. Si tratta di una tappa verso l’elaborazione di linee guida nazionali, su cui sta lavorando un gruppo di esperti.
La nuova Carta nasce da un percorso partecipativo, con una consultazione pubblica svolta sul portale governativo ParteciPA,3 che ha coinvolto la Comunità di Pratiche per il Governo Aperto e l’Hub Partecipazione.
“L’esperienza di revisione della Carta della Partecipazione ha riempito questo ultimo anno di confronti, dibattiti e proposte“ dichiara Serenella Paci, Presidente della Associazione Italiana per la Partecipazione Pubblica2 .“La Carta ci ha dato modo di confrontarci e riflettere sull’esperienza maturata in molteplici luoghi in Italia e da punti di vista diversi: delle amministrazioni pubbliche, dei proponenti di progetti, dei cittadini e associazioni della società civile”.
La carta elenca 12 valori e principi.
I VALORI che orientano la QUALITÀ sono: Inclusione (La diversità è ricchezza), Trasparenza (Tutto chiaro e accessibile), Equità (Parità e responsabilità), Cooperazione (Insieme è meglio), Efficacia (Creare cambiamento), Fiducia (Coltivare relazioni).
I PRINCIPI che guidano l’AZIONE sono: Coinvolgere (Ogni voce conta), Informare (Per accrescere i saperi), Facilitare (Ampliare e garantire il confronto), Co-creare (Generare quel che ancora non c’è) Valutare (Misurare per migliorare), Render conto (Restituire gli esiti nel tempo).
I brevi testi che descrivono ciascun punto sono stati condivisi, discussi ed elaborati con cura, si tiene conto del tempo, delle diverse voci che vanno protette e valorizzate, delle sedi e spazi in cui la partecipazione si realizza, delle valutazioni e delle responsabilità dei protagonisti, e della necessità di dar conto dei percorsi che vengono attivati.
Si tiene sempre presente uno dei problemi di fondo: quello del potere, che sia quello della conoscenza, delle capacità di esprimersi e di auto gestione, quello economico e politico.
Dopo la presentazione sono state discusse alcune delle questioni chiave che vanno affrontate per tradurre i princìpi in azioni concrete. Il confronto ha permesso di condividere i primi suggerimenti per le Linee guida nazionali per la partecipazione pubblica, impegno previsto dal 6° Piano nazionale per il governo aperto 2024/20264 che dalla Strategia nazionale per il governo aperto,5 che il governo italiano si è impegnato ad attuare.
2. AIP2 https://www.aip2italia.org/carta-della-partecipazione-pubblica/
3. https://partecipa.gov.it/?locale=it
4. https://open.gov.it/notizie/via-6-piano-azione-nazionale-governo-aperto-2024