Il futuro delle relazioni tra UE e USA
di Alessandra Zini
L’attesa per il risultato delle elezioni americane è palpabile anche a Bruxelles, dove si valuta quale sarà la direzione politica dei prossimi cinque anni. Mentre l’Europa cerca di tracciare un cammino verso una maggiore autonomia strategica – dalla difesa alla sovranità tecnologica – è chiaro che il nuovo presidente degli Stati Uniti potrebbe agevolare o complicare questo obiettivo ambizioso.
Tra Stati Uniti e Unione Europea vi è da sempre un solido legame di investimenti e scambi commerciali, dai tempi del Piano Marshall, fondamentale per la ripresa dei paesi dell’Europa occidentale post conflitto mondiale, alle più recenti forme di dialogo bilaterale come il Trade and Technology Council, in cui vengono coordinati approcci e risposte alle sfide globali, in materia commerciale, economica e tecnologica.
Nonostante il fallimento del TTIP, gli USA sono ancora il principale partner commerciale dell’UE, e insieme rappresentano un terzo degli scambi di beni e servizi globali. Raggiungere l’autonomia strategica da entrambi le parti senza compromettere questa relazione storica è utopia e si prevedono ulteriori frizioni che solo andranno a sommarsi a quella già in atto con la Cina.
Entrambi i blocchi non sono nuovi a contenziosi commerciali nel tentativo di “proteggere” e supportare il proprio mercato interno, come ad esempio le tariffe – sospese dall’amministrazione Biden – sulle importazioni di acciaio e alluminio dall’Europa o il contenzioso Boeing-Airbus, entrambe iniziate durante la presidenza Trump. Nonostante un suo ritorno alla Casa Bianca possa riportare tutti i progressi fatti negli ultimi 4 anni al punto di partenza con nuovi contenziosi, la linea di Harris non è molto distante da quell’ “America first” di trumpiana memoria.
Quando noi europei guardiamo alle elezioni americane, è ovvio che lo facciamo partendo dal nostro punto di vista, da ciò che può essere vantaggioso per noi, spesso trascurando il dibattito intorno ai temi “caldi” di politica interna, su cui invece ci si gioca la vittoria. Nè Trump, nè Harris nominano i rapporti commerciali transatlantici in campagna elettorale, focalizzandosi per lo più sulla guerra in Ucraina. Entrambi i candidati sono decisi a mettere al primo posto la sicurezza dei lavoratori americani – per cui l’inflazione sembra essere la preoccupazione principale – e della propria difesa e sicurezza in termini di indipendenza strategica. L’inflation Reduction Act (IRA) è un esempio di misura in tal senso. Emanata da Biden con l’obiettivo di combattere il cambiamento climatico, l’IRA prevede sussidi ed esenzioni fiscali per l’acquisto e sviluppo di tecnologie per la transizione verde e sensibili, come ad esempio le macchine elettriche e semiconduttori, prodotte in USA. L’ IRA si teme possa danneggiare i competitors Europei che invece non possono godere dello stesso trattamento e che possono quindi essere spinti a espandere la produzione negli Stati Uniti, piuttosto che mantenerla in Europa, tutto ciò in violazione delle regole dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio.
Sul fronte della difesa, i due candidati potrebbero avere approcci diversi. Un eventuale disimpegno di Trump dal sostegno all’Ucraina potrebbe richiedere all’Europa di intensificare il proprio impegno difensivo, forse persino finanziandolo con strumenti di debito condiviso – un’opzione complessa, data la resistenza di molti Paesi membri. Harris, invece, potrebbe continuare la linea Biden, mantenendo gli aiuti all’Ucraina e rassicurando l’Europa sulla continuità della collaborazione militare.
In ogni caso, è chiaro che l’UE dovrà prepararsi a un periodo in cui gli Stati Uniti privilegeranno i propri interessi, specie con il crescente focus sull’Asia e la rivalità con la Cina. Questo potrebbe lasciare l’Europa a gestire le proprie sfide in solitaria, costretta a trovare soluzioni rapide in uno scenario già complesso.
Tanto che alcuni a Bruxelles sperano in una vittoria di Trump non tanto per affinità politica, quanto per l’impatto che potrebbe avere: uno shock che, come nel caso della pandemia, risveglierebbe l’Europa e la spingerebbe verso riforme attese da tempo, incluse quelle di governance che sembrano intoccabili. Con Harris, invece, ci sarebbe forse un altro respiro di sollievo, che potrebbe però rischiare di perpetuare un’inerzia e asservimento che male si accompagnano allo scenario dinamico internazionale odierno.
Riferimenti:
European Union – United States Relations
United States – EU trade relations with the United States. Facts, figures and latest developments.
USA2024: le relazioni con l’Europa a un bivio, ISPI, 18 Set 2024
Nuovo patto di stabilità: un’occasione mancata per riformare l’architettura economica UE?
di Francesco Bedeschi
Con l’introduzione del nuovo Patto di Stabilità e Crescita, l’Unione Europea si trova di fronte a una fase di riorganizzazione delle politiche fiscali e di bilancio. Mentre gli stati membri si preparano a presentare le leggi di bilancio per il 2025, la pressione per ridurre il debito pubblico grava pesantemente su molte economie, specialmente quelle con un elevato rapporto debito/PIL. Tuttavia, una crescente preoccupazione si diffonde tra economisti e politici riguardo all’architettura economica delineata dal nuovo patto: è possibile conciliare la necessità di riduzione del debito con l’urgenza di aumentare gli investimenti pubblici, in particolare quelli legati alla transizione ecologica?
Le Sfide del Patto di Stabilità. Il nuovo Patto impone vincoli rigidi ai bilanci pubblici, con l’obiettivo di riportare i disavanzi sotto controllo e ridurre l’eccessivo indebitamento. Paesi come l’Italia, la Francia e la Germania stanno affrontando decisioni difficili. In Italia, la crescita stagnante rende complesso rispettare i nuovi parametri senza tagliare drasticamente la spesa pubblica, mentre in Francia la necessità di un bilancio severo ha complicato ulteriormente il contesto politico. In Germania, il famigerato “freno al debito” continua a guidare le decisioni di bilancio, nonostante il deterioramento delle infrastrutture e dei servizi pubblici. Questi sforzi di risanamento del debito sono estesi anche al di fuori dell’UE, come dimostra l’approccio prudente adottato dal nuovo governo laburista del Regno Unito. Tuttavia, la domanda cruciale resta: la riduzione del debito è davvero la via migliore per garantire una crescita sostenibile e la stabilità delle finanze pubbliche?
Uno degli argomenti principali a favore della riduzione del debito pubblico è che ogni cittadino, fin dalla nascita, eredita una parte di questo debito. Tuttavia, questa visione non tiene conto della differenza fondamentale tra lo Stato e una famiglia. Mentre una famiglia ha limiti di indebitamento naturali, lo Stato può teoricamente indebitarsi all’infinito, a condizione di riuscire a pagare gli interessi e trovare finanziatori. La sostenibilità del debito non dipende quindi dal suo livello assoluto, ma dalla capacità di generare entrate fiscali sufficienti.
Nonostante l’aumento dei tassi d’interesse, i costi del debito per molti Paesi europei rimangono inferiori rispetto ai primi anni 2000. I tassi reali, depurati dall’inflazione, restano prossimi allo zero o addirittura negativi. Di conseguenza, la riduzione del debito potrebbe non essere necessaria quanto si pensa. Piuttosto, un capitale pubblico adeguato potrebbe rivelarsi il vero motore per la crescita e la sostenibilità a lungo termine.
Negli ultimi decenni, gli investimenti pubblici sono stati trascurati in molti Paesi avanzati, con il conseguente deterioramento del capitale pubblico: infrastrutture fatiscenti, ospedali e scuole sotto pressione, e servizi pubblici indeboliti. Le stime del Fondo Monetario Internazionale evidenziano un calo generalizzato dello stock di capitale pubblico rispetto agli anni ’70 e ’80, con la Germania come esempio emblematico. Questo deterioramento ha effetti negativi non solo sui servizi, ma anche sulla crescita economica e sugli investimenti privati. È ormai chiaro che il taglio della spesa pubblica, invece di incentivare la crescita, può avere l’effetto opposto, come dimostrato dagli errori commessi durante la crisi del debito sovrano greco.
La Necessità di Rilanciare gli Investimenti Pubblici. Per invertire questa tendenza, è fondamentale rilanciare gli investimenti pubblici, in particolare quelli verdi e sociali. Studi recenti hanno dimostrato che tali investimenti hanno un effetto moltiplicatore significativo sull’economia, stimolando anche il settore privato. Contrariamente a quanto si credeva in passato, la transizione ecologica non è un costo, ma un’opportunità per stimolare la crescita.
Il Rapporto Draghi sulla competitività, presentato di recente, sottolinea il ritardo accumulato dall’Europa rispetto a Stati Uniti e Cina nella trasformazione strutturale dell’economia. Per recuperare terreno, il rapporto suggerisce di investire almeno il 5% del PIL annuo, di cui la metà proveniente da investimenti pubblici. Nonostante la necessità di un massiccio piano di investimenti, alcuni Paesi europei, in particolare quelli frugali, continuano a opporsi a programmi di spesa comuni e all’adozione di politiche industriali. Questo atteggiamento rischia di rallentare ulteriormente la transizione ecologica e il recupero del ritardo industriale dell’Europa rispetto ai suoi concorrenti globali.
In conclusione, il nuovo Patto di Stabilità rappresenta un’occasione mancata per riformare l’architettura economica dell’UE. Il dibattito pubblico europeo resta ossessionato dalla riduzione del debito, trascurando l’importanza degli investimenti pubblici per garantire una crescita sostenibile e affrontare le sfide della transizione ecologica. Chissà se i governi europei riusciranno a trovare un equilibrio tra rigore fiscale e investimenti? Solo il tempo lo dirà, ma la posta in gioco è altissima.
Il voto “spaccato” del Parlamento Europeo sulle guerre in Ucraina e in Palestina
di Silvia Bramardo
Il 19 settembre 2024 il Parlamento Europeo ha approvato le risoluzioni sul conflitto russo-ucraino, condannando l’aggressione russa e ribadendo pieno sostegno all’Ucraina, a supporto della sua indipendenza, sovranità e integrità territoriale. La risoluzione copre anche temi umanitari e di sicurezza: l’UE si impegna ad affrontare le violenze di genere, garantendo misure di supporto e prevenzione, a contrastare l’adozione forzata di minori, denunciare e fermare le deportazioni forzate, a fornire supporto umanitario ai rifugiati. Nel documento, gli Stati membri sono stati invitati ad aumentare i propri contributi finanziari e militari, includendo un supporto economico proporzionale allo 0.25% del PIL annuale dei Paesi UE e il congelamento delle riserve russe per un valore di quasi 300 miliardi di euro. I profitti dei beni congelati russi hanno poi prodotto il “via libera” di un prestito di 35 miliardi di euro per l’Ucraina, il 22 ottobre a Strasburgo.
Un punto particolarmente divisivo è il numero 8 della Risoluzione: prevede la revoca delle restrizioni all’uso di sistemi d’arma forniti all’Ucraina contro legittimi obiettivi militari sul territorio russo. Questa proposta ha portato a una spaccatura tra i gruppi parlamentari. Per quanto riguarda i partiti italiani, da una parte il Partito Democratico (con due astenuti), Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno votato a favore; dall’altro, la Lega, il Movimento 5 Stelle, Europa Verde e Sinistra Italiana hanno espresso voto contrario. La parlamentare europea del PD Pina Picierno ha comunque sottolineato che la risoluzione è passata con larghissima maggioranza, con 425 voti, grazie all’ampio consenso del Partito Popolare Europeo e del gruppo Socialisti & Democratici. Evidentemente, si respira un’aria di impegno e supporto aperto dei paesi europei nei confronti dell’Ucraina, tanto da collaborare all’inserimento di quest’ultima nell’UE; vi è un ampio consenso pubblico a favore dell’Ucraina nel conflitto con la Russia, per una questione di sovranità e di diritti umani.
Sul Medio Oriente, invece, la posizione dell’UE si rivela più cauta. La risoluzione non legislativa del Parlamento Europeo del 16 ottobre 2023, ha condannato “gli spregevoli attacchi terroristici di Hamas contro Israele” e espresso “seria preoccupazione” per la situazione nella Striscia di Gaza, ribadendo il diritto alla difesa di Israele, la cui azione militare tuttavia deve rientrare nei paletti del diritto internazionale, senza che possa configurarsi come “punizioni collettive”. Alcune critiche provengono dalla Sinistra UE, che lamenta una mancanza di fermezza verso Israele e richiede un embargo sulle armi destinate al Paese.
In un tentativo di promuovere la pace nella regione, l’Alto rappresentante dell’UE Josep Borrell aveva proposto Il 23 ottobre 2023 un piano in 10 punti che comprendesse una conferenza di pace con il coinvolgimento di USA, Egitto, Giordania e Lega Araba. Il piano prevede garanzie di sicurezza per entrambi gli stati e incentivi economici a lungo termine, richiamando la necessità di un’alternativa politica per i palestinesi, distinti da Hamas. Tuttavia, il piano non è stato ancora implementato a causa delle priorità umanitarie; il conflitto ha causato oltre 40 mila vittime, oltre 20mila bambini sono dispersi a Gaza e la “nakba” e le carestie continuano per milioni di Palestinesi ogni giorno.
Gli aiuti degli Stati membri mobilitati dal 7 ottobre 2023 ad ora corrispondono a oltre 940 milioni di euro. Ciò non sembra essere sufficiente a coprire l’emergenza umanitaria in corso. Abbiamo assistito ad incessanti escalation del conflitto: da nord a sud di Gaza, l’assedio di Israele ha costretto il personale della Protezione Civile palestinese a interrompere i servizi. Ciò comporta un’assenza di servizi umanitari di base e medici per oltre 400mila civili. I recenti attacchi della IDF sulle UNIFIL in Libano diffondono apprensione tra gli Stati dell’UE. E non tardano ad arrivare le prime dichiarazioni dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, il quale ipotizza che gli attacchi contro le Forze di pace potrebbero essere crimini di guerra. La cosa non sembra impensierire il Presidente Netanyahu e il Ministro della Difesa Gallant verso i quali, insieme a tre leader di Hamas, il Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale ha richiesto l’emissione di mandati d’arresto per crimini contro l’umanità lo scorso 20 maggio*. E non preoccupa neppure il Parlamento israeliano che il 28 ottobre ha votato una legge che vieta le attività dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, l’UNRWA, mettendo a repentaglio tutta la risposta umanitaria internazionale a Gaza.Il gruppo della Sinistra critica l’ambiguità delle posizioni UE nei confronti di Israele, richiama l’attenzione sull’assenza di una risoluzione che si schieri apertamente contro il governo di Netanyahu e sollecita l’UE affinché ponga l’embargo di armi ad Israele. L’Europa si definisce portatrice del ‘soft power’, dunque crediamo che in questa crisi umanitaria e politica sia fondamentale che gestisca le strategie di cooperazione, leadership e aiuto umanitario. Sorge spontaneo domandarsi, secondo la Sinistra europea, “dove sia la bussola morale dell’UE. Dove risieda la linea rossa. Cosa debba accadere prima che l’Unione Europea decida chiaramente di smettere di usare doppi standard”, citando l’intervento di Della Valle.
*redatto il 12 Novembre 2024
L’emissione di richiesta di arresto da parte del Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale non costituisce un mandato di arresto ufficiale. Spetta ora al Collegio di Giudici della Corte valutare la richiesta, analizzarne le prove raccolte, ed eventualmente emettere un mandato ufficiale d’arresto. Il procedimento è rallentato a causa di pressioni esercitate verso la Corte da Paesi (principalmente occidentali) sostenitori di Israele, tra cui spiccano Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti.