Acrescita, decrescita, post-crescita: verso un’economia dei beni comuni globali e planetari, di Lara Benazzi

Acrescita, decrescita, post-crescita: verso un’economia dei beni comuni globali e planetari, di Lara Benazzi

Nel discorso alla Conferenza europea sui diritti sociali del 16 aprile, Mario Draghi – incaricato dalla presidente della Commissione europea Von der Leyen di preparare un report sulla competitività dell’UE – ha affermato che l’Europa, al confronto di Cina e Stati Uniti, non ha “..una strategia su come tenere il passo nella corsa, sempre più spietata, per la leadership nelle nuove tecnologie…e su come proteggere le nostre industrie tradizionali da condizioni di disparità globali”. Tre sono i filoni su cui l’UE dovrebbe puntare per rispondere con urgenza alle nuove sfide: favorire le economie di scala superando la frammentazione del mercato in settori strategici come quello dell’energia, della difesa e delle telecomunicazioni; la fornitura e il finanziamento di beni pubblici, ad esempio sul fronte del clima e della difesa; l’approvvigionamento di risorse e input essenziali, come i minerali critici e la manodopera. 

Nulla di nuovo all’orizzonte: la vision rimane sempre la solita, quella della forte competizione tra blocchi economici e l’ambizione di un nuovo partenariato tra gli Stati membri dell’UE per poter stare al passo con le maggiori potenze globali, privilegiando il modello delle grandi corporations e dei monopoli. Nessun riferimento, inoltre, al programma d’azione sottoscritto nel 2015 da 193 paesi, l’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo sostenibile, richiamata invece dal Presidente Mattarella il 6 maggio a New York in apertura dei lavori della Conferenza sullo stato di attuazione dell’obiettivo di sviluppo sostenibile nr. 16  “Pace, giustizia ed istituzioni per lo sviluppo”. Mattarella ha criticato le relazioni tra Paesi basate su visioni ed eredità ottocentesche e su pulsioni di potenza, rilanciando strumenti di dialogo fondati sul principio del multilateralismo e sottolineando come la guerra allontani dalle priorità dell’Agenda 2030:  «… Pace e sviluppo hanno destini incrociati, non può esservi l’uno senza l’altra, viviamo in un’epoca con il maggior numero di conflitti dalla fine della II guerra mondiale che divorano enormi risorse nella corsa agli armamenti, sottraendole allo sviluppo».

Il progetto condiviso a livello globale per uno Sviluppo umano sostenibile sta evidentemente rischiando di essere affossato da una politica miope che divide anziché unire i popoli e ignora puntualmente gli appelli di scienziati, economisti non mainstream, enti di ricerca, società civile per un mondo più giusto e sostenibile. Il filo rosso che lega le varie voci dissonanti rispetto al pensiero economico dominante è la messa in discussione del concetto di crescita e del suo principale indicatore di “salute”, il prodotto interno lordo (PIL), che rappresenta la capacità del sistema economico di produrre e vendere beni; obiettivo dell’economia non deve essere la ricchezza per pochi (paesi o gruppi sociali) ottenuta attraverso una logica di sfruttamento di risorse e di persone, ma il benessere più ampio possibile basato sul rispetto delle leggi naturali e dell’equità sociale. Della necessità di ripensare a cosa si intende per crescita e progresso e al loro significato per la sostenibilità globale ha parlato in maniera inequivocabile l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA – European Environment Agency) nel documento “Growth without economic growth” (Crescita senza crescita economica) dell’11 gennaio 2021, in cui non solo viene messo in discussione il mantra della crescita economica senza limiti, ma addirittura la possibilità dello sviluppo sostenibile stesso di riuscire a disaccoppiare la crescita dal consumo di materia e capitale naturale facendo affidamento prevalentemente su efficienza e tecnologia, come previsto dalle strategie europee del Green Deal. L’Agenzia è critica anche nei confronti dell’economia circolare, che non sarà in grado di allentare l’impronta ambientale del sistema produttivo se non sarà accompagnata da un profondo cambiamento nei consumi e nelle pratiche sociali: “L’economia circolare potrebbe non fornire la trasformazione verso la sostenibilità se le misure di circolarità alimentano una strategia di crescita che porta a un aumento del consumo di materiali”.

L’EEA ha poi evidenziato come negli ultimi decenni siano nate varie iniziative e prospettive teoriche per ripensare l’economia in modo da coniugare l’attenzione ai bisogni del genere umano con la trasformazione verso un futuro sostenibile; nello specifico, si indicano quattro filoni principali: 

  1. la decrescita, che designa “…i movimenti accademici, politici e sociali più radicali che enfatizzano la necessità di ridurre la produzione e il consumo e definiscono obiettivi diversi dalla crescita economica”.

Il capostipite è il filosofo ed economista Serge Latouche secondo cui la crescita, qualunque essa sia, è dannosa per l’ambiente e per le sue capacità rigenerative: nelle nazioni sviluppate dove sono stati già oltrepassati i planetary boundaries (i limiti ecologici e di sostenibilità che il pianeta non può permettersi di oltrepassare) non basta la transizione verso le attività green, serve una drastica diminuzione della produzione e dei consumi. I sostenitori della decrescita ritengono che la proposta dello “Sviluppo sostenibile” lanciata dalle Nazioni Unite negli anni Duemila sia comunque un ossimoro per tentare di salvare la religione della crescita di fronte alla crisi ecologica e che sia invece necessario un cambio di paradigma rispetto all’ordine produttivistico dominante e al mercato globalizzato, un vero e proprio progetto alternativo di civiltà. L’espressione decrescita è stata definita da Latouche una «bomba semantica» o una «parola proiettile», uno slogan provocatore per farci ritrovare il senso dei limiti; non è sinonimo né di recessione, né di crescita negativa: si tratta piuttosto di un progetto rivoluzionario di tipo sociale, un percorso verso la società d’abbondanza frugale come orizzonte di senso, che deve iniziare con il “decolonizzare il nostro immaginario” rinunciando al culto della crescita economica e dell’uomo a una dimensione di Marcuse (homo oeconomicus), principale fonte dell’uniformazione planetaria e del suicidio delle culture. Latouche è consapevole che parlare di decrescita nel Sud globale sarebbe assurdo, quasi indecente, mentre il progetto di costruire una società di abbondanza frugale renderebbe possibile la diversità culturale, un mondo plurale che non si realizzerà nella stessa maniera in Europa, nell’Africa sub-sahariana o in America latina. 

Nel tempo si sono susseguite varie espressioni simili alla frugalità di Latouche: la sobrietà di Ivan Illich e Francesco Gesualdi, l’austerità di Enrico Berlinguer, la decrescita felice di Maurizio Pallante, tutte finalizzate alla riduzione dei consumi e a una visione di economia del ben-vivere non fondata sul PIL, che esprime il puro valore monetario dei prodotti e dei servizi, scambiati con denaro nel corso di un anno, cioè delle merci. Il punto centrale sta nel differenziare le merci dai beni, cioè prodotti e servizi che rispondono ai bisogni e sono essenziali. Ci sono delle merci che fanno crescere il Pil, ma non hanno nessuna utilità in quanto generano sprechi a causa di inefficienze o di eccessi di produzione (dall’energia, al cibo, ai medicinali, all’abbigliamento); al contrario, ci sono beni che non fanno crescere il Pil perché non vengono comprati, come i beni autoprodotti o scambiati sotto forma di doni reciproci nell’ambito di rapporti comunitari, fino ai beni che non si possono comprare ma danno un senso alla vita, i beni relazionali;

  1. la posizione agnostica della “acrescita”, secondo cui la crescita in sé è irrilevante e il progresso non dovrebbe essere giudicato esclusivamente attraverso il PIL, a causa della sua inadeguatezza nel riflettere il benessere della società. 

La politica dovrebbe essere neutrale riguardo alla crescita, poiché potrebbe produrre risultati positivi o negativi per l’ambiente o gli obiettivi sociali. E’ quanto sostiene ad esempio l’economista Mauro Gallegati che, nel suo libro del 2016 “Acrescita. Per una nuova economia”, lancia la sfida di “acrescere”, cioè di liberarsi dall’idea che il Pil misuri la qualità della nostra vita e di cominciare a pensare a un mondo che contempli indicatori di benessere (la natura, i tempi e le forme di lavoro e di vita, le relazioni sociali), includendo dunque l’economia nella natura e nella società. Secondo Gallegati, dovremmo uscire dal paradigma di un’economia che prescinde dalla Natura e dalle leggi della fisica: la decarbonizzazione dell’economia è necessaria, ma non sarà da sola sufficiente a farci superare la crisi climatica, se non modifichiamo i modi di consumo, di produzione agricola, di allevamento del bestiame, di urbanizzazione e trasporto.

Anche Latouche è convinto che per essere rigorosi bisognerebbe utilizzare il termine di a-crescita, con la «a» privativa greca, come si parla di a-teismo, in quanto si tratta esattamente dell’abbandono di una fede e di una religione, quella della crescita, e diventare “atei dell’economia, agnostici del progresso e dello sviluppo”. 

Sia le teorie della decrescita che quella dell’a-crescita rientrano nel paradigma della cosidetta POST-CRESCITA, secondo cui il perseguimento di una crescita economica infinita e’ incompatibile con i limiti fisici e biologici del pianeta. Tuttavia, come spiega Maurizio Pallante, ci sono delle differenze: “…la paroladecrescita significa diminuzione, la parola a-crescita significa senza aumento. I due concetti sono diversi e possono dare esiti opposti. Se una persona rimane per più giorni con la febbre a 40, la sua temperatura non cresce, ma le sue condizioni di salute peggiorano. Se invece la febbre diminuisce a 37 gradi, migliorano. L’esito della decrescita è diverso a quello dell’a-crescita. Per ridurre la crisi ecologica non basta abbandonare la fede nella crescita, occorre promuovere concretamente la decrescita come proposta culturale e politica. Le risorse rinnovabili che la biosfera rigenera nel corso di un anno vengono consumate dall’umanità prima della metà di agosto. Se l’economia smettesse di crescere non se ne consumerebbero di più, ma si continuerebbe a consumarne più di quante la biosfera è in grado di rigenerare. Solo una diminuzione dei consumi e delle emissioni consente di rientrare nei limiti della compatibilità ambientale”. La decrescita, inoltre, è la strada che ha come metala compatibilità ambientale e l’equità, tra gli esseri umani e tra la specie umana e le altre specie viventi. L’abbandono della fede nella crescita, l’a-crescita, è una condizione necessaria, ma non sufficiente per avvicinarsi progressivamente a questi obiettivi. 

Secondo recenti studi e ricerche (https://www.decrescita.it/post-crescita-vs-crescita-verde/) si sta formando un consenso scientifico per il nuovo paradigma economico della post-crescita, alternativo a quello della green economy (che pensa di ridurre gli impatti ambientali ma senza di fatto mettere in discussione la crescita economica). Gli obblighi climatici di Parigi non possono essere rispettati se la crescita rimane un obiettivo: una maggiore crescita della produzione e dei consumi comporta una maggiore domanda di energia e quindi maggiori emissioni; è necessario ridurre le forme di produzione e consumo dannose e dispendiose, non solo aumentarne l’efficienza. “Un passo fondamentale è smettere di perseguire la crescita economica aggregata e perseguire invece approcci di post-crescita orientati alla sufficienza, all’equità e al benessere” (Vogel & Hickel, 2023).

Esiste, dunque, un forte e ampio accordo tra gli studiosi sul fatto che il futuro della sostenibilità globale significa superare la concezione del progresso basata sulla crescita e spostare l’attenzione della società direttamente sul benessere delle persone e della natura. Se ne è parlato nella prima conferenza Beyond Growth ospitata dal Parlamento europeo nel maggio 2023 innescando un processo che ha portato poi all’organizzazione di altri eventi simili in vari paesi europei: Beyond Growth Conference Italia 2024 si è tenuta il 19 e 20 aprile a Roma presso la Camera dei Deputati e la Città dell’Altra Economia, organizzata da Movimento per la Decrescita Felice (MDF), Associazione per la decrescita, Welbeing Economy Alliance, Friends of the Earth Europe, Partners for a new economy e European Enviromental Bureau;

  1. la Green growth, la ‘crescita verde’, che fonda la propria idea di sostenibilità principalmente sull’innovazione e la tecnologia. 

E’ la strada intrapresa dall’UE con la strategia del Green Deal. Secondo l’EEA, si tratta di un atteggiamento “fortemente pro-crescita” che servirà a fornire le basi per sostenere i livelli di occupazione, promuovere la coesione sociale e fare gli investimenti necessari “in modo da conciliare l’aumento del PIL con limiti ambientali”. Tuttavia, non si escludono strade alternative per “esplorare modi per rendere le società europee meno dipendente dalla crescita economica”. Nel documento “Imagining Europe Beyond Growth” (https://www.greeneuropeanjournal.eu/wp-content/uploads/2023/05/Imagining-Europe-Beyond-Growth-May-2022.pdf) presentato alla succitata conferenza Beyond Growth, sono contenute le riflessioni di studiosi/e, politici, attivisti/e, concordi nel ritenere che l’attuale sistema economico occidentale orientato alla crescita non potrà reggere perché sta ormai portando verso il superamento dei limiti ecologicidel pianeta. Le soluzioni proposte differiscono tra chi ritiene che la crescita economica non debba essere annullata, ma riorientata verso le attività green e chi invece asserisce che il paradigma della crescita vada superato in toto, in quanto la green economy è un’utopia irrealistica. Quest’ultima è la posizione delricercatore in economia ecologica Timothée Parrique che parla a tal proposito di greenwashing macroeconomico, in quanto ad oggi non c’è nessuna prova empirica in nessun luogo a supporto del decoupling, il disaccoppiamento tra crescita economica e danni o impatti ambientali; dove è stato misurato, si è trattato della conseguenza di un trasferimento di impatti dovuto al commercio internazionale (da nazioni ricche a nazioni povere) o è stato troppo lento. Secondo Parrique, serve  “…una pianificazione democratica della produzione e dei consumi per migliorare l’impronta ecologica e ridurre le ineguaglianze globali… la decrescita va intesa come una dieta macroeconomica sufficiente a ridurre la pressione sull’ambiente e stabilizzare il metabolismo delle economie più sviluppate per farlo tornare nei limiti della sostenibilità”.  

I sostenitori della decrescita criticano la Green Economy, in quanto le soluzioni proposte – efficienza, innovazione tecnologica, riciclo – non scardinano di fatto un’economia materiale in espansione che continua a incoraggiare produzione e consumi e, inevitabilmente, fa aumentare i rifiuti;  l’economia circolare potrebbe essere efficace se realmente ci fosse la volontà di staccarsi dalla logica del prendi-usa-getta per approdare a un’economia rigenerativa in cui i materiali vengono riutilizzati, rinnovati, rielaborati, riciclati e condivisi più e più volte;

  1. l’economia della ciambella, dal titolo del libro dell’economista britannica Kate Raworth (Doughnut Economics, 2017), secondo cui la trasformazione della società attraverso la decrescita dovrebbe condurre a un’economia di dimensioni più piccole definita dai limiti ambientali e sociali.

Il sistema economico viene immaginato da Raworth non più come linea retta, ma come uno spazio circolare contenuto tra due anelli, quello più esterno che indica la biosfera e i limiti planetari che non possiamo oltrepassare (ciclo del carbonio, ciclo dell’acqua, cicli dei nutrienti, biodiversità ecc.) e quello più interno che delimita la sfera della giustizia sociale, cioè i diritti minimi essenziali, come cibo, acqua, alloggio, energia, sanità, istruzione. La ciambella simboleggia l’area sicura e giusta all’interno della quale l’umanità può operare, bilanciando equamente il benessere sociale con la sostenibilità ambientale. 

Tutto ciò che entra nell’economia, l’energia e la materia, e tutto ciò che ne esce, i rifiuti, l’inquinamento e il calore, devono essere compatibili con le condizioni favorevoli alla vita su questo pianeta, il quale è un sistema complesso, che, come il corpo umano, ha bisogno di equilibrio per funzionare bene. I ricercatori del Potsdam Institute for Climate Impact Research hanno definito i principali parametri o indicatori (9) da misurare per sapere se il sistema è in buona salute: Cambiamenti climatici, Acidificazione degli oceani, Inquinamento chimico, Ciclo dell’azoto e del fosforo, Consumo di acqua dolce, Cambiamento di uso del suolo, Perdita di Biodiversità, Carico di aereolo atmosferico, Riduzione dello strato di ozono. Purtroppo, solo l’ozono, gli aerosol atmosferici e l’acidificazione dell’oceano sono per il momento sotto controllo; gli altri 6 parametri sono ormai tutti in zona a rischio, con la biodiversità che si trova nella peggiore situazione. 

Come per i limiti biofisici, vengono definiti degli indicatori quantitativi in relazione ai parametri sociali ispirati dagli obiettivi dello sviluppo sostenibile (l’accesso a beni e servizi di base come cibo, energia, acqua e servizi igienici, educazione, trasporti, servizi sanitari; giustizia e condizioni i sociali ed economiche appropriate in termini di lavoro, equità, parità di genere e libertà politica) che permettono di valutare se una certa popolazione dispone di tutte le condizioni necessarie ad una vita giusta e soddisfacente. L’attività economica deve essere sufficiente a soddisfare i bisogni di tutti e quindi essere redistributiva della ricchezza. 

Raworth ha analizzato e smontato le teorie economiche che appartengono a un paradigma ottocentesco e che continuano a essere insegnate ancora oggi (“i graffiti economici che stazionano nelle nostre menti”) e, sulla base delle ultime acquisizioni scientifiche sul sistema Terra e dell’economia comportamentale, ecologica e femminista, indica sette passaggi chiave per liberarci dalla nostra dipendenza dalla crescita, riprogettare il denaro, la finanza e il mondo degli affari e per metterli al servizio delle persone: 1. cambiare l’obiettivo, passando dal PIL (usato per giustificare estreme diseguaglianze nel reddito e nella ricchezza) al rispetto per i diritti umani di ognuno nei limiti del pianeta che ci dà la vita; 2. vedere l’immagine complessiva dell’economia non limitarsi all’immagine mainstream che la raffigura in un solo diagramma, il flusso circolare del reddito; 3. coltivare la natura umana, superando il modello dell’uomo economico razionale (ci hanno raccontato che siamo egoisti, isolati, calcolatori, con dei gusti stabili, e che dominiamo la natura, mentre la natura umana è molto più ricca di così, siamo sociali, interdipendenti, vicini, fluidi nei valori e dipendenti dal mondo vivente); 4. Acquisire una comprensione dei sistemi economici, attraverso il pensiero sistemico, la dinamicità che apre le porte a molte nuove intuizioni, dai cicli di espansione e contrazione dei mercati finanziari alla natura autorinforzante della diseguaglianza economica e ai punti di non ritorno dei cambiamenti climatici; 5. Riprogettare l’economia (come rete di flussi) per distribuire, non solo il reddito ma la ricchezza stessa, in particolare quella che giace nel possesso di terreni, imprese, tecnologie e conoscenze e nel potere di creare denaro; 6. creare per rigenerare, c’è bisogno di un pensiero economico che scateni la progettazione rigenerativa per creare un’economia circolare – non lineare – per restituire agli esseri umani il ruolo di partecipanti a pieno titolo ai processi ciclici della vita sulla Terra; 7. essere agnostici riguardo alla crescita: oggi abbiamo economie che hanno bisogno di crescere, che ci facciano prosperare o meno, quello di cui abbiamo bisogno sono economie che ci facciano prosperare, che crescano o meno. 

La ciambella può essere misurata per il mondo intero, per un paese, una regione, una città, un quartiere, un’azienda. Come dichiara l’autrice “questi sette modi di pensare non delineano specifiche prescrizioni o correzioni istituzionali alle politiche. Non promettono risposte immediate sul cosa fare dopo, e non rappresentano sicuramente la risposta completa…”. Inoltre, non introduce un limite artificiale o ideologico al progresso tecnologico, allo sviluppo economico e ai profitti delle imprese, a condizione che i limiti biofisici non siano oltrepassati. Per questo tale teoria è stata a volte criticata da chi preferirebbe scelte politiche più radicali. In realtà, il sistema di indicatori della «Doughnut Economics by 2030», sviluppato dall’istituto tedesco ZOE, è stato raccomandato agli Stati Membri e alla Commissione europea dal Comitato economico e sociale europeo (CESE), il quale nel documento Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema «Misurazioni che vadano oltre il PIL per una ripresa riuscita e un’economia dell’UE sostenibile e resiliente» (2022/C 152/02) ritiene che il PIL non riesca a esprimere la situazione reale di una società in termini di benessere e sviluppo e che servano nuovi indicatori in grado di affrontare le sfide globali del XXI secolo (come i cambiamenti climatici, la povertà, l’esaurimento delle risorse, la salute e la qualità della vita). 

Sono sempre di più, dunque, gli enti che collaborano con l’Unione europea che ritengono inevitabile passare da un sistema economico in cui il motore principale è rappresentato dalla crescita a un modello in cui viene privilegiata la sostenibilità, con nuovi parametri per misurare la “salute” del Pianeta e della nostra specie, dalle emissioni di carbonio all’aspettativa di vita e a aspetti correlati (biodiversità, inquinamento, salute, disponibilità e assunzione di sostanze nutritive). L’EEA conclude il succitato documento “Growth without economic growth”, affermando che la sfida nei prossimi anni “sarà quella di portare queste intuizioni nei processi politici tradizionali e considerare come possono essere efficacemente operative a sostegno degli obiettivi di sostenibilità dell’Europa…” e ripensare e riformulare la nozione di progresso in termini più ampi rispetto al consumo”.  Se non si agisce tempestivamente, la crisi climatica diventerà una minaccia per la stabilità, la sicurezza alimentare e la disponibilità d’acqua in tutto il mondo. Il CESE dichiara che il nuovo quadro di valutazione «al di là del PIL» può essere inglobato nel processo di governance europea, la quale dovrebbe adottare una nuova prospettiva orientata al benessere dei cittadini. 

-Beni pubblici – Beni comuni globali – Beni comuni planetari

La teoria economica neoclassica parte dalla centralità dei beni privati prodotti per il mercato; distingue quindi i beni pubblici che richiedono interventi per correggere le esternalità non catturate dai prezzi di mercato: da un lato la produzione di beni pubblici puri, come la difesa nazionale, che rende indispensabile l’intervento dei governi, mentre i beni di merito, come l’istruzione primaria o la sanità, mettono radicalmente in discussione la validità delle preferenze individuali per il raggiungimento del benessere collettivo. Infine, con i beni comuni, un pascolo, l’acqua, la conoscenza, si introducono la responsabilità individuale e collettiva e un nuovo fondamentale concetto: il principio di reciprocità nelle relazioni economiche e sociali. La concezione di bene comune corrisponde, dunque, all’esigenza di trovare soluzioni di natura collettiva, superando la visione atomistica della teoria dominante. 

Si deve al premio Nobel per l’economia Paul Samuelson (1954) la definizione del concetto di bene pubblico in contrapposizione al bene privato, come quella «categoria di beni che a differenza dei beni privati sono consumati collettivamente e non individualmente». Le caratteristiche che distinguono i beni pubblici puri da quelli privati sono due: i beni pubblici possono essere simultaneamente fruiti da più individui (principio della non rivalità) e nessun individuo può essere escluso dalla loro fruizione (principio della non escludibilità). La conseguenza di policy è che i beni pubblici puri devono essere provvisti attraverso il bilancio pubblico; ovvero, la loro offerta sarà definita attraverso un processo politico e non attraverso il mercato. Si pensi ai servizi pubblici forniti dalle amministrazioni in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini, bisogni che ovviamente variano nel tempo: l’erogazione dell’acqua e della luce, il sistema dei trasporti, l’amministrazione della giustizia; i processi di privatizzazione di alcuni servizi ne mettono a rischio l’accesso universale.

Diversa è la condizione dei cosiddetti “beni di merito”, comprendenti attività come l’istruzione primaria, i servizi sanitari, l’offerta di parchi-giochi o di case popolari, la comminazione di vaccini; sono beni soggetti al principio di esclusione e di rivalità nel consumo, per cui, a differenza dei beni pubblici, sono divisibili e possono quindi essere offerti come beni privati, prodotti per il mercato. 

I beni comuni comprendono beni e attività – la biodiversità, le risorse idriche, la conoscenza, la fiducia diffusa – con caratteristiche molto diverse tra loro. La loro definizione nell’alveo della disciplina economica differisce inoltre dalla definizione giuridica. Nella teoria economica hanno trovato trattazione sistematica nelle ricerche di Eleonor Ostrom e rientrano nella categoria dei beni comuni quelli a bassa escludibilità ma potenzialmente rivali, poiché l’uso intensivo del bene può limitarne l’utilizzo da parte di altri: si applica principalmente allo sfruttamento di risorse naturali – tipico l’esempio di un pascolo o della pesca in un lago naturale – per le quali l’accesso è libero, ma un eccessivo sfruttamento può provocare l’esaurimento della risorsa o un suo uso non sostenibile nel tempo. Ostrom offrì un contributo teorico importante, costruendo una soluzione di gestione comunitaria innovativa, di tipo cooperativo, che non implica necessariamente la proprietà del bene e di conseguenza evita di cadere nella forzata dicotomia della scelta proprietaria privatistica o pubblicistica. Del tutto diversa è la concezione prevalente nella disciplina giuridica, che ne coglie la natura di beni essenziali, per i quali deve essere garantita la disponibilità; da un lato comprende cose tangibili, come l’aria, l’acqua, la terra, anche proprietà immobiliari, dall’altro, è di tipo funzionale all’esercizio di diritti fondamentali dei cittadini, come riconosciuto da Stefano Rodotà, che ha presieduto la Commissione istituita in Italia dal ministro della Giustizia nel 2007 per elaborare la modifica delle norme del Codice civile in materia di beni pubblici e beni comuni. In questa concezione di beni comuni sono incluse le risorse naturali, quali: «fiumi, sorgenti, laghi e altre acque, aria, parchi, lidi e tratti di costa dichiarati riserva ambientale», ma anche altri insiemi di beni, diversi, quali: «i beni archeologici, artistici e culturali». La categoria dei beni comuni non è dunque un concetto univoco, nelle diverse discipline, per cui per le indicazioni di policy ciò pone la questione di stabilirne il perimetro: si tratta di risorse naturali esauribili oppure di diritti fondamentali della persona? Beni tangibili (le risorse naturali) o intangibili (conoscenza)? Locali (un pascolo, un lago per la pesca) o globali (la difesa dall’inquinamento atmosferico o dal riscaldamento del pianeta)?

Una categoria fondamentale è quella dei beni comuni globali, la cui principale criticità consiste oggi nella debolezza delle istituzioni sovranazionali alle quali è demandata la definizione di obiettivi globali e strumenti di intervento condiviso. A livello internazionale, organizzazioni come la Global Commons Alliance puntano alla salvaguardia dei beni comuni globali, essenziali per sostenere la vita sulla Terra e utilizzati contemporaneamente da miliardi di persone: l’atmosfera e il clima, le foreste, i laghi, il mare, l’acqua. Si trovano solitamente al di fuori dei confini giurisdizionali dei singoli Stati sovrani, ma tutte le nazioni hanno un interesse collettivo, soprattutto quando si tratta di estrazione di risorse, affinché queste siano protette e governate efficacemente per il bene generale. 

Un gruppo di 22 ricercatori, in un articolo pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), di recente ha lanciato un appello per una loro rapida ridefinizione, in quanto oltre alle regioni geografiche condivise  dovrebbero includere anche  tutti quei sistemi biofisici critici che operano al di là dei confini nazionali e regolano il funzionamento del pianeta Terra, come le grandi foreste pluviali, i ghiacciai dell’Artico e dell’Antartide, il permafrost della tundra, le barriere coralline, gli ecosistemi costieri di mangrovie o gli ecosistemi sottomarini, le paludi salmastre, lo strato di ozono, i monsoni. Sono i “beni comuni planetari” i quali richiedono una nuova governance collettiva su scala globale, in quanto i loro cambiamenti interessano le popolazioni di tutto il mondo. Attualmente i beni comuni globali (mare aperto e fondali marini profondi, atmosfera, e Antartide) vengono definiti come aree estese della Terra che si trovano al di fuori delle giurisdizioni degli Stati e sono considerati a livello giuridico res nullius (di proprietà di nessuno) o res communes (di proprietà di tutti), oppure il loro status è ambiguo o contestato. Pertanto, ciascuno di essi è regolato da singoli trattati tra gli Stati, partendo però dal presupposto di un sistema terrestre stabile, di risorse abbondanti e di perturbazioni ambientali prevedibili. In pratica, l’attuale quadro normativo globale applica la stessa logica dell’attività umana nell’Antropocene a un sistema complesso e interconnesso come quello del pianeta…Se non si interviene rapidamente, si rischia di superare i limiti planetari con conseguenze disastrose dal punto di vista climatico e ambientale, come la riduzione dell’ozono nella stratosfera, l’inquinamento, l’acidificazione degli oceani, la perdita della biodiversità. Con inevitabili ripercussioni sul funzionamento dei sistemi biofisici e dunque sulle popolazioni.

Due sono gli elementi costitutivi alla base delle indicazioni di policy per la gestione di beni globali: 1) la costruzione di istituzioni sovranazionali rappresentative e la capacità politica del loro coordinamento, eventualmente regionale, per la definizione di indirizzi strategici condivisi per il lungo periodo; 2) gli strumenti di cui dotarle, in grado di garantire l’attuazione delle politiche stabilite, che dovranno necessariamente essere collegati ai territorio e alle istituzioni locali. Gli studiosi del PNAS citano alcuni esempi virtuosi a cui ispirarsi per un nuovo quadro di governance dei beni comuni planetari: il regime di gestione globale di uno dei nove confini planetari, l’assottigliamento dello strato di ozono; l’accordo del 2023 nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale; i 17 goals dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo sostenibile.  Tutto questo richiede in ogni caso di superare il paradigma utilitarista, ancora oggi dominante nella teoria delle scelte pubbliche, ovvero la visione economico-individualistica di costi-benefici monetizzabili subito; per avviare percorsi di cooperazione a livello internazionale, al criterio dell’efficienza andrebbe affiancato quello dell’equità, per affrontare problemi come la ripartizione dei costi basata sulle responsabilità pregresse, sui benefici attesi nelle diverse regioni e sul diverso livello di sviluppo dei paesi. Le valutazioni politiche qui richiamate avranno ripercussioni sul benessere delle generazioni future, pertanto non possono essere ridotte a decisioni basate su scelte individuali, quantificate quasi esclusivamente in termini di reddito monetario atteso.

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