I regimi illiberali nell’UE, di Lara Benazzi
“Il XX secolo si è concluso con una diffusione territoriale senza precedenti della democrazia. E’ stata una novità storica assoluta, eredità dell’ultima parte del Novecento, nel corso del quale sono implosi molti Stati autoritari e totalitari…Rispetto agli anni Novanta, ….siamo consapevoli dei rischi di regressione illiberale che possono correre anche i sistemi democratici più stabili…La democrazia è un esito possibile, non più scontato…”. Con queste considerazioni si apre il nuovo volume “La democrazia. Concetti, attori, istituzioni”, una collezione di contributi di specialisti/e, a cura del prof. Marco Almagisti e del prof. Paolo Graziano, dedicata a tutte le persone intellettualmente curiose di approfondire il tema della democrazia nelle sue molteplici sfaccettature. Quando oggi parliamo di democrazia il riferimento è alla concezione “procedurale” formulata dall’economista austriaco Joseph Schumpeter, intesa come metodo di governo fondato sulla competizione delle élite per ottenere il consenso del demos, del popolo. Una visione di democrazia competitiva in cui i leader dei partiti, in modo simile agli imprenditori per la conquista dei mercati, puntano al potere, misurabile in voti ottenuti attraverso le procedure elettorali.
Come ci viene ricordato dagli autori, tuttavia, le procedure non sono mai neutre, perché incorporano valori e sono frutto di “scelte” politicamente connotate, che non possono prescindere dal contesto storico in cui operano i soggetti; insomma, scelta, utilizzo e interpretazione delle “regole” dipendono da categorie culturali mediante le quali la realtà viene definita e interpretata. In tal senso, anche la corretta applicazione delle procedure elettorali democratiche potrebbe portare a due situazioni di rischio: da un lato non garantisce la “democraticità” dei rappresentanti, che una volta eletti potrebbero agire per svuotare di senso la Costituzione, come sta avvenendo in regimi “ibridi” o autoritari in Europa centrorientale ; dall’altro, i governati (i molti) potrebbero non apprezzare le decisioni degli eletti (i pochi), mettendo in discussione non solo le decisioni politiche in sè, ma l’intero establishment della democrazia rappresentativa in nome della presupposta “purezza” del popolo, come si è verificato recentemente con i fenomeni di populismo nelle democrazie più mature.
Negli anni ’90 l’Europa centrorientale è stata al centro del dibattito sul processo di democratizzazione post-comunista, che ebbe il suo coronamento grazie all’integrazione e all’adesione all’Unione europea negli anni 2004-2007, mentre di recente in quella stessa regione si sta assistendo ad una fase di regressione democratica (democratic backsliding), in particolare in Paesi come l’Ungheria e Polonia. Il recente smantellamento sistematico di principi e istituzioni della democrazia liberale non avviene attraverso golpe militari, ma è opera della loro progressiva colonizzazione da parte di esecutivi democraticamente eletti, con leader e partiti illiberali intenti a “ingrandire” il potere dell’esecutivo e a smantellare i contrappesi democratici (come magistratura e media indipendenti) presentati come ostacoli alla piena realizzazione del “volere popolare”. C’è da chiedersi quale sia il ruolo dell’Unione Europea, sia in positivo come argine all’erosione dello stato di diritto tra gli Stati membri, sia in negativo come potenziale corresponsabile dell’ascesa e permanenza al potere di leader illiberale nell’Europa centrorientale e anche di posizioni sovraniste.
Nel caso dello stato di diritto, l’ordinamento europeo, come affermato dai Trattati, è fondato sui principi dello Stato liberale di diritto e del costituzionalismo democratico. La difesa della rule of law europea poggia sulle procedure dettate dall’art. 7 TUE, dimostratesi purtroppo sin qui poco efficaci, o, in alternativa, potrebbe deviare verso l’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione UE, strumento invece temuto dagli Stati membri, perché produce serie conseguenze sotto il profilo economico-finanziario. E’ diffusa, però, la logica “quid pro quo” (qualcosa al posto di qualcos’altro) in cui la prevalenza di interessi politici o economici ha la meglio sui diritti: si pensi al caso dello sblocco parziale dei fondi del PNRR per l’Ungheria, concesso dalla Commissione in cambio dell’approvazione di aiuti finanziari all’Ucraina; il governo di Viktor Orbán aveva chiesto l’esborso integrale, legando le sue richieste al consenso su altre decisioni, ma la concessione dei restanti 20 miliardi di euro è subordinata a riforme volte ad affrontare i conflitti di interessi, proteggere i diritti delle persone LGBTQ e garantire l’accesso all’asilo per le persone migranti. In una risoluzione approvata a larga maggioranza a gennaio di quest’anno, il Parlamento europeo, però, ha condannato ancora una volta i comportamenti del governo ungherese minacciando di ricorrere alla Corte di giustizia dell’Unione europea se la Commissione sbloccherà i fondi destinati a Budapest. Ricordiamo anche la complessa questione armeno-azera nel Nagorno-Karabakh: il diritto internazionale stabilisce e riconosce la regione del Caucaso, occupata illegalmente nei primi anni ’90 dalle forze armene, come parte dell’Azerbaigian; gli Stati dell’Ue, invece, non hanno di fatto mai preso una posizione chiara e ciò rende difficile tentare di mediare ed invitare al dialogo di fronte alla recente escalation militare degli ultimi mesi, dopo che l’Azerbaigian ha lanciato un attacco nel territorio separatista conteso, che potrebbe essere il preludio di una nuova guerra. L’Azerbaigian è sempre stato uno Stato autoritario, ma negli ultimi anni c’è stato un ulteriore schiacciamento delle istituzioni e dei diritti democratici; il silenzio dell’Unione europea su questo stato e anche sul suo comportamento nel Nagorno-Karabakh è “assordante”, e questo si spiega anche per ragioni squisitamente economiche: nel luglio 2022, in pieno conflitto russo-ucraino e crisi energetica, UE e Azerbaigian hanno firmato un memorandum d’intesa su un partenariato energetico strategico, volto ad aumentare le forniture di gas azerbaigiano ai paesi europei.
L’ascesa dei sovranismi, invece, può essere messa in relazione con il decennio di sfide complesse – la crisi economica, l’emergenza dei rifugiati nel Mediterraneo, la pandemia da Covid-19, la guerra in Ucraina – seguito al periodo dell’ampliamento e dell’approfondimento delle competenze sovranazionali in molteplici ambiti di policy: in questi anni si sono moltiplicati i partiti euroscettici che hanno manifestato una vera e propria contrarietà alle scelte operate a livello sovranazionale dagli Stati membri o dalle istituzioni europee. In diverse democrazie occidentali più “mature”, i cosiddetti sconfitti della globalizzazione costituiscono buona parte dei nuovi voti conservatori: la legittimità democratica dell’Unione europea, che assolve una funzione centrale nel garantire la stabilità delle istituzioni nei sistemi democratici liberali, è risultata indebolita da interventi che vengono percepiti come indesiderati dai cittadini (si pensi alle politiche del rigore durante la crisi dell’Eurozona o agli effetti sociali non gestiti della transizione ecologica) o dall’assenza di interventi percepiti come rilevanti (come la guerra in Ucraina o la gestione securitaria dei migranti nel Mediterraneo).
C’è un fenomeno molto grave che si sta diffondendo in questi anni nelle relazioni internazionali fra Paesi e che pervade la stessa Europa: è lo sharp power utilizzato da entità statali utilizzando la manipolazione in numerosi settori (comunicazione, economia, cultura ecc), con l’obiettivo di indebolire istituzioni e caratteristiche distintive dei sistemi democratici. L’attacco all’istituzione democratica per eccellenza, le elezioni, può essere portato avanti attraverso la diffusione di fake news sull’influenza indebita di Stati esteri con l’obiettivo di minare la credibilità del processo elettorale; con cyber attacchi sulle infrastrutture elettorali; con attacchi diretti o indiretti a candidati o partiti sgraditi. Il processo di logoramento e manipolazione dell’opinione pubblica può essere portato avanti anche attraverso l’arruolamento di opinion leaders (come giornalisti, accademici ecc.), o il sostegno economico a soggetti politici che favoriscono il cattivo funzionamento delle istituzioni democratiche. Tornando al caso dell’Azerbaigian, come riportato da Euractiv Italia (https://euractiv.it/section/capitali/news/la-dipendenza-energetica-dalllazerbaigian-limita-lazione-ue/), il paese sta facendo pressioni sull’Europa in ogni modo possibile – attraverso una rete di lobbisti -per fermare la denuncia dei crimini contro i diritti umani.
Secondo un sondaggio di Open society foundations (https://it.euronews.com/2023/09/15/la-democrazia-e-a-rischio-estinzione), che nel 2023 ha intervistato più di 36mila persone in 30 Paesi del mondo per scoprire opinioni e sensazioni in materia di diritti umani e democrazia, è emerso il concetto di democrazia è ancora ampiamente popolare in ogni regione del mondo: l’86% degli intervistati dichiara di preferire vivere in uno Stato democratico e il 62% ritiene che la democrazia sia la miglior forma di governo possibile. Ciò che sorprende però è che, sebbene a livello generale la fiducia nella democrazia sia ancora alta, la fascia d’età a essere più scettica sulla sua efficacia è proprio quella più giovane, dai 18 ai 35 anni. Siamo davanti a una generazione che ha vissuto una serie di shock: crisi economiche, Covid, cambiamenti climatici, ed è più che provato che gli Stati autoritari non hanno gestito bene queste crisi, ma nemmeno le democrazie. Quando si cresce in un’epoca di instabilità e di crisi, si ha poca fiducia nei politici: in media, circa un terzo degli intervistati non si fida del fatto che i politici lavorino nel loro interesse e si occupino dei temi che stanno loro a cuore, in primis povertà, disuguaglianza e diritti umani, cambiamento climatico e corruzione.
Chissà se i partiti che si qualificano come democratici terranno conto di questi campanelli d’allarme…